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Testo critico: ROMANA LODA

"Beatriz Millar: Tra erranza e artificio"

LA SCELTA DELL’ERRANZA

Si voltavano a guardare la parete con le
foto di famiglia, file di volti sorridenti, tutti
morti o lontani. Com’era possibile, si
chiedevano, essere ridotti a rimanere soli?

Bruce Chatwin


L’artista è nomade, sempre. La sua è una condizione senza alternative.
Costretto da un tarlo interno, è spinto a perlustrare con infinita pazienza
tutti gli anfratti delle strade che percorre, tutti i ripostigli delle case che
abita, tutte le ansie del suo cuore.
È un viaggiatore, sempre pronto a partire per affrontare gli irati flutti della
vita, anche se spesso non può garantirsi il ritorno. È una figura a metà
strada tra il Cavaliere Errante e Don Chisciotte, proiezioni fantastiche che
in lui si fondono fino ad esplodere in un’unica inquietudine che lo induce
a odiare i posti dove è costretto a trattenersi e porsi in ansiosa attesa di
una nuova partenza.

L’artista è un pellegrino, sempre. Ha una sua meta da raggiungere, un
suo santuario da visitare. Non sarà la Mecca e neppure Santiago de
Compostela; non la Madonna di Czestochowa, ma santi come Piero della
Francesca o Vermeer, Cézanne o Picasso. E ci va, in qualsiasi maniera,
carico di libri, di idee e di rabbia, anche. Ci va e ci ritorna, seppure
affermerà a volte di essere stato altrove.

L’artista è un esule, sempre. Non ha altra scelta che andarsene, sia che
resti in una famiglia vociante e vorace, sia che abbandoni tutto e tutti per
andare altrove. E comunque è destinato ad essere straniero, ovunque si
trovi, traccia opaca e spesso insondabile in mezzo alla folla silenziosa. Con
il suo comportamento non conforme è il lato oscuro delle nostre certezze,
l’ansioso interrogativo sulla nostra identità.
Come tutti gli stranieri è uno scorticato che si porta dentro una ferita
segreta. È come Mersault, lo Straniero del libro omonimo di Camus,
oppresso da un senso di non appartenenza che lo rende psicologicamente
appestato. Tutto ciò che gli sta attorno è sfuocato e, nascondendosi in un
buco di sorrisi, compie azioni di cui non sa misurare l’impatto eversivo.

Esule è Beatriz Millar, che ha scelto non solo di fare l’artista, ma anche di
vivere lontano dai luoghi della sua origine e dai suoi affetti primari,
costringendosi a parlare una lingua non sua per andare alla ricerca del
sole e di se stessa.
È vero che nulla può venire dall’artista che non sia già nella persona, ma
è provato che uno sradicamento e comunque traumatico fino a
paralizzare i centri creativi, oppure risolversi in una liberazione che porta
a fare scelte di grande coraggio e chiarezza. Tahiti è stato fondamentale
per Gaugin, non perché ha ritratto donne esotiche dal vero, ma per aver
permesso alla sua pittura di liberarsi definitivamente dall’impressionismo.
Millar, nel suo peregrinare successivo agli studi accademici e ad un
Periodo di orientamento, ha oscillato a largo compasso fra l’analisi delle
simultaneità cromatiche dei futuristi (in particolare le sintesi di Boccioni e
i dinamismi di Russolo), fino alle silhouettes di Matisse e alle sagome in
legno di Hans Arp.

L’artista da giovane, è costretto a muoversi all’interno di una gabbia
costruita dalla sua cultura. Gli cresce dentro una grande rabbia che deriva
dall’evidente sproporzione fra ciò che vorrebbe fare e i mille
condizionamenti che glielo impediscono. E ciò va avanti fino a quando le
scintille, se ci sono, riescono ad innescare la fiamma di una invenzione
finalmente liberata. Picasso iniziò rifacendosi a El Greco, mentre
Mondrian ripercorse gli stilemi impressionisti, ma entrambi vi
rinunciarono rapidamente, fino a fagocitare i loro maestri e a uscirne
purificati, pronti a imboccare la loro strada dell’autonomia.

Anche Beatriz Millar non ha potuto ovviamente sottrarsi a quella che
qualcuno ha definito la selezione darwiniana nell’ intricata
e selvaggia giungla dell’arte, ma una volta uscita dalla sua condizione di
errante-non-eretica ha preferito proseguire da sola, scegliendo di rimanere
laterale rispetto ai gruppi e gruppuscoli egemoni: esule tra stranieri.
Al contrario di Francis Bacon, che ammetteva sconsolato di non essere mai
riuscito a dipingere un sorriso, Millar è come abbacinata dal sole che ha
trovato e si dispone davanti al progetto di un’opera con la sorridente
leggerezza che la porta a parteggiare, oltre che a rappresentare. All’inizio
doveva frenare una sorta di fervore che la spingeva a voler dire tutto in
una volta, con frenesia. Poi fece un lungo viaggio di umiltà all’interno dei
classici e approdò alla sintesi di una figuralità che va decisamente oltre la
mera esercitazione del figurativo. Nel su disegno e nel lavoro successivo
di intaglio e traforo delle sottili tavole di legno da assemblare e colorare,
non c’è tuttavia l’abbandono autocompiaciuto del bricoleur, che realizza
con materiali inusuali dei paesaggi ripresi da cartoline illustrate oppure
scene da capolavori altrui. In Millar c’è oggi una progettazione rigorosa e
un lavoro meditativo di spoliazione delle ridondanze, finché non giunge
alla conquista di una intensità magica che è figlia legittima di una
semplicità strappata con forza al groviglio magmatico della realtà.

Dopo essere stata pellegrina e nomade, Beatriz Millar, pittrice, è esule per
vocazione, straniera per scelta. Ha però raggiunto quel raro punto di
equilibrio nel quale anche il vedere non è che un compagno del sentire.


LA BUGIA CREATIVA

Risparmia un briciolo di sentimento,
conserva almeno una bugia creativa.
Solo nel lieve battello dell’arte
Potrai salpare dal tedio del mondo.

Aleksandr Blok


Per fare arte è necessario a sopprimere la realtà e
trasformarla in qualcosa d’altro. L’arte è fondamentalmente il tentativo di
svelare ciò che è nascosto. È un viaggio conoscitivo, illusione, finzione:
bugia creativa.
Ogni opera d’arte può definirsi la somma dei malintesi di cui è stata
occasione; è allo stesso tempo "enigmatica, menzognera, bella con frode",
secondo Licini, oppure "magia liberata dalla pretesa di essere verità",
secondo Adorno. Vero, ma alla condizione che la menzogna sia
sorprendente e fascinosa come un bagliore di luce nella notte o un
girasole spuntato nella sabbia del deserto.

L’artista, straniero e nomade, è anche essenzialmente un bugiardo perché
cerca di imporre al mondo una sua particolare illusione. Ha un baule
pieno di nuvole e ne estrae manciate per disperderle nell’aria affinché si
trasformino in visioni, allucinazioni, sogni. Felicità, per l’artista, non
significa semplicemente, in senso freudiano, l’appagamento di bisogniaccumulati, ma anche la possibilità di espandere liberamente il proprio
ingegno creativo. In ciò si differenzia dalla massa. E mentre per questa è
importante stare nella vita senza porsi troppe domande, per l’artista è
essenziale spremere da ogni dubbio almeno una goccia di miele. È la sua
indole, oltre che il suo destino, ma cosa può fare lui stesso quando la vita
comincia a dolergli? Come può astrarsi nell’invenzione creativa quando
deve affrontare gli insulti che la sorte gli riserva? Nessuno può
compensare anche un solo istante di infelicità, ma l’artista ha la capacità
di sublimarla, tramutandola in emozione.
E se è pur vero che non esiste il cosiddetto vuoto artistico, cioè un luogo
e un tempo nei quali l’artista possa isolarsi completamente dal mondo, è
anche vero che solo la forza della creatività gli permette di attraversarlo
senza venirne travolto.

Chi è giovane, ha una percezione della realtà che è completamente
diversa da quella dei suoi predecessori. Cresce in una società parcellizzata
da segnale forti, molto rapidi. L’attuale velocità delle comunicazioni rende
ridicole le follie velocipedistiche tanto decantate dei futuristi. Oggi i
mezzi avvicinano talmente che si può essere contemporaneamente in
qualsiasi luogo del mondo e si vive in una tale tormenta di immagini, che
ha fatto prevedere a molti esperti come il prossimo diluvio universale non
sarà d’acqua, ma elettronico. Nessuno potrà sfuggire all’affogamento nel
turbine dei segnali e ciò il giovane lo avverte, anche se lo vive con
apparente noncuranza: una specie di coazione a comunicare che si
esaurisce in se tessa, attraverso messaggi senza messaggio, idee senza
ideologia.

Beatriz Millar, artista giovane e sensibile, vive il proprio tempo con
lucidità e passione. Dopo essersi messa alla velocità dei futuristi, si è
accorta che essi del futuro avevano solo il nome, mentre in realtà erano
epigoni nevrotizzati del passato. Per questo ha spostato la sua attenzione
su altri maestri che ha trovato via, via più affini: Matisse e Arp; poi i più
recenti Barry Kitaj, Patrick Caulfield, Joe Tilson, Mel Ramos. Su ognuno
ha condotto studi approfonditi per valutarne l’essenza poetica, non già
per farsi condizionare dai loro stilemi espressivi.
Come diceva il cane di una favola di Esopo: "meglio la fame piuttosto che
il peso del collare", anche Millar ha esercitato la sua esplorazione con
voracità, ma senza altri incantamenti all’infuori di una verifica di affinità
per poi andare, libera, altrove.
È quindi approdata ad una forma autonoma di pittura-scultura, realizzando
delle tavole dematerializzate che si appendono direttamente al filo
dell’immaginario. È arrivata in questo modo a occultare le piste del linguaggio
espressivo, per realizzare delle sintesi come campi di concentrazione di
sorridente estaticità, di grande impatto visivo ed emozionale.
In alcune sue opere più recenti, come una serie dedicata al tango
argentino, ad alcune scene tratte dai film di Marilyn Monroe e una serie
successiva dedicata alle prostitute nere, l’effetto prospettico è stato
annullato in favore della massima eccitazione della superficie. È qui che,
spogliando i quadri di qualsiasi ridondanza formale, Millar raggiunge
vette inusitate di efficacia espressiva.
Non bisogna però, anche nel caso di queste opere, lasciarsi fuorviare
troppo dal gioco accattivante delle forme sinuose e dei colori accesi. Al
contrario occorre focalizzare i vari particolari compositivi per percepire la
fascinazione di ciò che attraversa la memoria come una freccia
acuminata, capace di attivare le forze brulicanti che si intersecano e
interagiscono fino ad esplodere come fuochi d’artificio.

Beatriz Millar, fatta la sua scelta di solitudine che l’ha portata ad essere
esule, si riconcilia con il mondo attraverso le sue bugie creative, che le
permettono di percorrere leggera le sue invenzioni come fossero tappeti
freschi e morbidi, dai colori scintillanti. Oggi, al primo e certamente
parziale bilancio di una attività non lunga, ma variegata e sostenuta da
importanti riscontri, si rende conto che le asperità della stagione
formativa la possono preservare da possibili cedimenti lungo una strada di
ricerca che si annuncia non scevra da ulteriori sviluppi.
In un tempo in cui le generazioni artistiche nascono e muoiono come
battiti di palpebre, la scelta di Beatriz Millar è quella della durata,
cosciente della necessità di restare laterale ad un contesto che si muove
come un treno impazzito. Sa perfettamente che l’arte, tutta l’arte, è la
consapevolezza che una vita può non bastare, ma anche che tutto vale la
pena e si può compiere se l’anima non è angusta.

LETTERA A BEATRIZ MILLAR SULL'ESSERE ARTISTA GIORNO PER GIORNO E SULLA POESIA
CHE ATTRAVERSA LA VITA (*)

Cara Beatriz,
stavo ripensando al film La fiammiferaia di Kaurismaki, che abbiamo visto
insieme l'altro ieri ed ero ancora sotto l'impressione opprimente della
totale mancanza di parole amiche nella vita della protagonista e della sua
decisione ineluttabile di punire ferocemente tutte le persone che le avevano
negato un gesto d'affetto.
Riandavo alla considerazione che abbiamo fatto, circa le difficoltà ad
accettare l'indifferenza ostile degli altri senza maturare una forma di
violenza, che ad un certo punto deve esplodere. Insomma, come avrai
capito, ero sotto cattivi influssi, come si dice con un blando eufemismo, e
anche un po' immalinconita dalla giornata livida e ventosa. Per questo ho
estratto dal mio cassetto segreto una manciata di vecchie poesie e ne ho
individuata una di Pedro Salinas, che ti trascrivo:

Ciò che sei
mi distrae da ciò che dici.

Lanci parole veloci
imbandierate di risa,
invitandomi
ovunque esse mi portino.
Io non ti bado, non le seguo:
guardo le labbra su qui nacquero.

A un tratto guardi lontano.
Inchiodi lo sguardo lì,
non so a che cosa, e ti si scocca
a cercarla l'anima
tua di freccia aguzza.
Io non guardo dove guardi:
ti sto guardando guardare.

Non c'è altra cosa che io voglia
se non vederti volere.

Non ricordo quanti anni sono passati da quando l'ho letta per
la prima volta, ma nel ritrovarla è stato come sedermi davanti ad
un fuoco vivo e caldo, dopo un viaggio mesto e stancante.
Le parole hanno innescato una specie di fantasticheria ad occhi
aperti, portandomi ad associare il discorso poetico ad alcuni tuoi gesti e
alle mie reazioni nei loro confronti. E tutto è avvenuto in modo spontaneo,
convincendomi che si tratta sostanzialmente di una mia personale
proiezione liberata dai versi. Voglio dire che ho associato questa poesia ad
una mia idea complessiva che mi sono fatta di te e della quale devo
tenere conto, perché le ombre non si separano dai corpi che le generano, a
meno che non vengano cancellate da lampi accecanti.
Così, assecondando queste sollecitazioni, sono stata trascinata a
considerare più in generale i miei rapporti con gli artisti, per come si sono
dipanati in molti anni di frequentazioni reciproche.
Nelle relazioni tra persone si stabiliscono inevitabilmente degli intrecci di
nervi e di dubbi più o meno ansiosi, dai quali è difficile districarsi, a meno
che i rapporti non si arrestino alla sogli del formalismo. Nel rituale di
ogni nuova conoscenza scatta la seduzione di un sorriso, di una parola,
oppure la repulsione verso un gesto, una inflessione. Con gli artisti è
diverso, perché generalmente si conosce prima l'opera e solo in seguito
si passa al rapporto personale e qui, spesso, ci si deve arrendere di fronte
all'evidente contrasto fra opere che stanno al livello alto della loro poeticità,
mentre che le ha prodotte deve vivere come può, spesso non
bene.
L'arte è il tentativo di esprimere l'inesprimibile; è sublimazione del reale
anche quando nasce nel torbido del vivere. L'artista non dispone di una
camera del vuoto entro la quale operare libero e felice e spesso deve
fingere uno stato di grazia che non gli appartiene. Lavora come e più di
tutti, mentre la vita va avanti, e compie tentativi di volo che a volte si
risolvono in cadute umilianti.
Parlo naturalmente di che opera con serietà, indipendentemente dai
risultati, perché gli artisti, come tutte le altre persone, non sono tutti
uguali e, al di là dei tentativi di classificarli come un'unica categoria
specifica, hanno individualità peculiari, che ne caratterizzano la maggiore
o minore capacità di aderire a ciò che producono.
Non tutti uguali, dicevo, e spesso sorprendentemente contraddittori. A
volte ne trovi alcuni che sono davvero entusiasmanti come persone, per
intelligenza, cultura spirito e capacità di analisi, ma che realizzano lavori
di desolante impotenza. Con loro puoi avere un rapporto piacevole e
stimolante, ma devi anche subire il disagio provocato da questa
schizofrenia di chi non sai darti ragione. Hanno capolavori nella testa e
pietre preziose nelle parole, ma tutto si gela alle soglie del pensare, del
dire.
Al contrario, entri in contatto a volte con persone a dir poco pesanti per
l'incapacità di dare un briciolo di fascino alle loro poche e confusissime
idee, per le loro piccole grettezze continuamente esibite. Poi ti devi
arrendere ammirata davanti alle loro opere, incantevoli per inventiva,
profondità, spirito d'avventura, poeticità. È un mistero, ma posso
assicurarti di aver visto quadri bellissimi uscire da studi - cucina
maleodoranti di cavoli e cipolle, mentre ho visto opere insulse e mosce,
perfettamente confezionate e catalogate, in grandi e luminosi atelier di
maestri che intrattengono amabilmente critici e mercanti, mentre alcuni
assistenti si danno da fare per preparare le tele e finire i particolari più
noiosi e ripetitivi.
Ti faccio un esempio: la mostra più stupida che ho visto recentemente era
allestito in un palazzo antico, nel quale l'autore, stretto in un impeccabile
smoking, scivola di un gruppo all'altro di signore adoranti, sciorinando
con grazia delle spiegazioni del tipo l'eterna lotta tra la vita e la morte, tra
il bene e il male, davanti a quadri che sembravano budini avariati. E in un
angolo, a dare un piacevole sottofondo musicale all'evento, una giovane
violoncellista a seni nudi, molto ammirata e molto triste.
Non ho potuto evitare, per contrasto, di ritornare con la memoria a quella
volta, tanti anni fa, che incontrai Antonio Ligabue in una piccola libreria
di Reggio Emilia. Non sapevo nulla di lui e quando me lo trovai davanti
non potei reprimere una reazione istintiva di ribrezzo. Era una specie di
animale con gli occhi sbarrati, il naso adunco e una spessa patina gialla
sui denti.
Si muoveva con timore evidente fra i pochi presenti e quando gli si
avvicinava una donna, ansimava rumorosamente. Ero affascinata dalla sua
pittura, ma mi tenevo distante da lui, che, oltre tutto, puzzava in una maniera
insopportabile.
Ad un certo punto me lo sono trovato dietro che mi soffiavo sul collo e,
mentre mi spostavo prudentemente dietro un tavolo, si avvicinava
sibilando: "Voio la verghine!" Gli altri ridevano, ma io ero terrorizzata e lo
sono rimasta fino a quando i suoi amici, ridendo e dandogli delle pacche
bonarie sulle spalle, lo hanno portato via. Un esperienza mortificante, ma
ti devo dire che raramente dei quadri mi hanno dato tanta emozione dopo
quelli del doganiere Rousseau, tanto caro a Picasso. Quelli di De Chirico,
certo, e di Burri, anche altre due personaggi impossibili. Oppure quelli di
Orneore Metelli, il pittore-calzolaio di Terni che dipingeva di notte in
cucina, sbagliava le prospettive e dispensava autentica poesia con
generosità.
Non voglio trascinare troppo dai ricordi e perdere il filo iniziale
di questa lettera. L'interrogativo che a tratti mi assale è come sia possibile
armonizzare la creatività con il vivere, la poesia con la realtà, senza
rinunciare a quella parte dell'una e dell'altra che spetta ad un essere
umano. Di esempi ne avrei, anche se non moltissimi, ma per tutti desidero
parlarti di Giulio Turcato, forse l'ultimo autentico pittore del dopoguerra
italiano, con il quale sono stata legata da una lunga amicizia. L'ho definito
una volta Angelo Inconsapevole e credo che gli si addicesse, perché non faceva
nulla di angelico, ma lo era per dono di natura e per effetto di quella
straordinaria deviazione della sensibilità che gli permetteva di stare con la
testa in cielo anche quando aveva i piedi immersi nella melma del mondo.
In arte ha avuto una stagione di impegno politico, senza piegarsi a un
banale populismo, come ha fatto Guttuso. Si è mantenuto libero di
trasformare in poesia tutto quello che trovava, dalle automobiline dei
bambini, alle scatolette della liquirizia. Ha fatto quadri su superfici di
gommapiuma, chiamandoli suoli lunari, prima che l'uomo andasse sulla
luna. Ha messo nei suoi quadri dei pezzetti di pelle umana, biglietti del
treno, monete e molte altre cose ancora, comprese le pastiglie dei
tranquillanti. Tutto senza mai perdere di vista la pittura, quella più
autentica ed emozionante.
Turcato non predicava, non aveva verità da trasmettere; viveva la pittura,
anzi era la pittura, riuscendo nell'impresa pressoché impossibile di
diventare egli stesso opera d'arte, vivendo.
Scusa se sono stata un po' prolissa, ma è difficile a resistere alla voglia di
comunicare quando ci si rifugia nel tepore di una poesia. Non ti conosco
da molto, ma già al primo incontro mi hai fatto rivivere dei momenti
piacevoli legati ad alcuni artisti che ho sentito particolarmente affini. In te
ho visto subito le tue opere, nelle quali ti proponi con abbandono totale,
quasi ingenuo. Tutti siamo ciò che facciamo, ma per te è un modo d'essere
così naturale, che a volte, quando stiamo insieme, mi accade di distrarmi
dal tuo lavoro per concentrarmi su di te, che entri ed esci dai quadri e come
fossero specchi da percorrere lievemente, a passo di danza. Scivoli dal fare
all'essere con gli occhi dilatati, meravigliata che tutto possa riuscire così
facile. Sai che non è vero, che creare costa fatiche immani, ma riesci a
sublimare te stessa nello stupore del progetto che diventa opera finita.
Per te temo soltanto che gli inevitabili inciampi del vivere possano
aggredirti fino a stremarti, trasformarti. E, anche se ti riconosco una
grande forze interiore, ti prego di non cedere. Fa che l'arte sia la tua
salvezza, sempre; non permettere che questa passione possa diventare un
lavoro da trascinare con fastidio. Evita di trasformare la vita in una
sequenza di notti segnate della fatica di dimenticare il giorno appena
trascorso e dall'ansia per il giorno nuovo che incombe. Non lasciare che i
sogni esauriscano la loro capacità di coglierti di sorpresa, fatto che si
verifica quando si arriva al punto senza ritorno in cui tutto si può
sopportare, tranne l'entusiasmo. Soprattutto, non morire di certezze! Vivi
la meraviglia dell'essere innamorata senza riserve di ciò che fai, anche se
ciò ti costa fatica e sangue. Hai un dono raro, che ti scocca l'anima di
freccia aguzza e non devi permettere che la vita e la grettezza altrui
possano strapparti questa capacità di poesia.

Non c'è altra cosa che io voglia
se non vederti volere.

Te lo dice una persona come me, che ha passato una stagione esaltante
vicina ad alcuni Angeli Inconsapevoli e che si è dovuta arrendere, suo
malgrado, a scrivere con una mano e ad asciugarsi le lacrime con l'altra.

Romana

Dicembre 1997

(*) Estratto dal volume di Romana Loda "IL MARE CHE NON NAVIGAMMO"
di imminente pubblicazione per le Edizioni Multimedia-Brescia.


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